Di cosa è fatta la speranza
Alle 5.46 del mattino del 15 ottobre 1943
le allieve infermiere dell’ultimo anno della
Nightingale Training School for Nurses partono
da Londra dirette a un ospedale allestito per
curare i feriti che giungono dai fronti di guerra.
Tra le ragazze, emozionate nelle loro uniformi
impeccabili, ce n’è una snella e buffa per via
delle lunghe gambe e dei piedi grandi: la
famiglia l’aveva instradata verso l’università di
Oxford, ma lei ha deciso di diventare infermiera.
Si chiama Cicely Saunders.
Durante le infinite notti in corsia, Cicely vede
morire tra sofferenze indicibili ragazzi belli
e coraggiosi, suoi coetanei. Sa di non poter
fare per loro nulla se non ciò che i medici
prescrivono, eppure si rende conto con orrore
che per un medico ogni moribondo è una causa
persa, un insuccesso professionale.
Cicely comincia a fare una cosa a cui dedicherà
la vita intera: annotare i tentativi e i fallimenti,
le intuizioni, le buone pratiche che consentono
di lenire la sofferenza di chi non è più guaribile.
E quando capisce che il suo diploma di
infermiera non basta più, si laurea in Medicina
e, nel 1967, riesce ad aprire il primo moderno
hospice: non un posto dove si va a morire, ma
dove si può vivere fino all’ultimo istante con
dignità. Emmanuel Exitu si ispira alla storia
di Cicely Saunders – le cui procedure sono
tutt’oggi considerate dall’OMS il punto di
riferimento per migliorare la qualità della vita
dei malati terminali – per scrivere un romanzo
luminoso, che racconta il misterioso abbraccio
tra il dolore e la speranza e ci riguarda tutti.
La storia di questa donna dalla caparbietà
visionaria ci dice che la sofferenza si sconfigge
prima di tutto con un farmaco di cui tutti
possiamo disporre, l’empatia, e che la speranza
è, come scriveva Emily Dickinson, “quella cosa
piumata / che si viene a posare sull’anima” e
può illuminarci fino all’ultimo nostro respiro.
Alle 5.46 del mattino del 15 ottobre 1943
le allieve infermiere dell’ultimo anno della
Nightingale Training School for Nurses partono
da Londra dirette a un ospedale allestito per
curare i feriti che giungono dai fronti di guerra.
Tra le ragazze, emozionate nelle loro uniformi
impeccabili, ce n’è una snella e buffa per via
delle lunghe gambe e dei piedi grandi: la
famiglia l’aveva instradata verso l’università di
Oxford, ma lei ha deciso di diventare infermiera.
Si chiama Cicely Saunders.
Durante le infinite notti in corsia, Cicely vede
morire tra sofferenze indicibili ragazzi belli
e coraggiosi, suoi coetanei. Sa di non poter
fare per loro nulla se non ciò che i medici
prescrivono, eppure si rende conto con orrore
che per un medico ogni moribondo è una causa
persa, un insuccesso professionale.
Cicely comincia a fare una cosa a cui dedicherà
la vita intera: annotare i tentativi e i fallimenti,
le intuizioni, le buone pratiche che consentono
di lenire la sofferenza di chi non è più guaribile.
E quando capisce che il suo diploma di
infermiera non basta più, si laurea in Medicina
e, nel 1967, riesce ad aprire il primo moderno
hospice: non un posto dove si va a morire, ma
dove si può vivere fino all’ultimo istante con
dignità. Emmanuel Exitu si ispira alla storia
di Cicely Saunders – le cui procedure sono
tutt’oggi considerate dall’OMS il punto di
riferimento per migliorare la qualità della vita
dei malati terminali – per scrivere un romanzo
luminoso, che racconta il misterioso abbraccio
tra il dolore e la speranza e ci riguarda tutti.
La storia di questa donna dalla caparbietà
visionaria ci dice che la sofferenza si sconfigge
prima di tutto con un farmaco di cui tutti
possiamo disporre, l’empatia, e che la speranza
è, come scriveva Emily Dickinson, “quella cosa
piumata / che si viene a posare sull’anima” e
può illuminarci fino all’ultimo nostro respiro.