Uvaspina
È nato con una voglia sotto l’occhio sinistro, come
un pallido frutto incastonato nella pelle: Uvaspina
si è abituato presto a essere chiamato con quel nome
che lo identifica con la sua macchia. A quasi tutto,
del resto, è capace di abituarsi: a suo padre, il notaio
Pasquale Riccio, che si vergogna di lui; alla Spaiata,
sua madre, che dopo aver incastrato Pasquale Riccio
con le sue arti di malafemmina e chiagnazzara non
si dà pace di aver perduto il proprio fascino e finge
di morire ogni volta che lui esce di casa. Ma soprattutto
Uvaspina è abituato a sua sorella Minuccia, abitata
fin da bambina da un’energia che tiene in scacco
il fratello con le sue esplosioni imprevedibili,
le ripicche, la ferocia di chi sa colpire nel punto
di massima fragilità, come quando gli dice: “Avevano
ragione i compagni tuoi, sei veramente un femminiello.”
Eppure, solo Uvaspina conosce l’innesco che rende
la sorella uno strummolo, una trottola capace di ferire
con la sua punta di metallo vorticante. E solo Minuccia
intuisce i sogni di Uvaspina, quando lo strummolo
la tiene sveglia e può scrutare i suoi finissimi
lineamenti nel sonno.
Intorno a loro, Napoli: la città dalle viscere ribollenti,
dai quartieri protesi verso il cielo, dai tentacoli
immersi in quel mare che la fronteggia e la penetra.
È proprio sul confine tra la città e il mare, tra
la storia e il mito, che Uvaspina incontra Antonio,
il pescatore dagli occhi di colori diversi, che legge
libri e non ha paura del sangue, che sa navigare
fino a Procida e rimettere al mondo un criaturo
che dubita di se stesso.
La purezza del loro incontro, però, non potrà
nascondersi a lungo nelle grotte di Palazzo Donn’Anna:
la città li attira a sé, lo strummolo gira e il suo laccio
unirà per sempre i loro destini.
Una passione assediata dallo scherno e dallo scuorno.
L’ambiguità dell’amore fraterno, la necessità dell’ombra
perché ci sia luce. Infine una scrittura, quella della
giovane Monica Acito, che sa inserirsi con originalità
in una grande tradizione letteraria e, mescolando
la forza tellurica del vernacolo alla freschezza di un
racconto sulla giovinezza, invoca la fame di felicità
che abita ciascuno di noi.
È nato con una voglia sotto l’occhio sinistro, come
un pallido frutto incastonato nella pelle: Uvaspina
si è abituato presto a essere chiamato con quel nome
che lo identifica con la sua macchia. A quasi tutto,
del resto, è capace di abituarsi: a suo padre, il notaio
Pasquale Riccio, che si vergogna di lui; alla Spaiata,
sua madre, che dopo aver incastrato Pasquale Riccio
con le sue arti di malafemmina e chiagnazzara non
si dà pace di aver perduto il proprio fascino e finge
di morire ogni volta che lui esce di casa. Ma soprattutto
Uvaspina è abituato a sua sorella Minuccia, abitata
fin da bambina da un’energia che tiene in scacco
il fratello con le sue esplosioni imprevedibili,
le ripicche, la ferocia di chi sa colpire nel punto
di massima fragilità, come quando gli dice: “Avevano
ragione i compagni tuoi, sei veramente un femminiello.”
Eppure, solo Uvaspina conosce l’innesco che rende
la sorella uno strummolo, una trottola capace di ferire
con la sua punta di metallo vorticante. E solo Minuccia
intuisce i sogni di Uvaspina, quando lo strummolo
la tiene sveglia e può scrutare i suoi finissimi
lineamenti nel sonno.
Intorno a loro, Napoli: la città dalle viscere ribollenti,
dai quartieri protesi verso il cielo, dai tentacoli
immersi in quel mare che la fronteggia e la penetra.
È proprio sul confine tra la città e il mare, tra
la storia e il mito, che Uvaspina incontra Antonio,
il pescatore dagli occhi di colori diversi, che legge
libri e non ha paura del sangue, che sa navigare
fino a Procida e rimettere al mondo un criaturo
che dubita di se stesso.
La purezza del loro incontro, però, non potrà
nascondersi a lungo nelle grotte di Palazzo Donn’Anna:
la città li attira a sé, lo strummolo gira e il suo laccio
unirà per sempre i loro destini.
Una passione assediata dallo scherno e dallo scuorno.
L’ambiguità dell’amore fraterno, la necessità dell’ombra
perché ci sia luce. Infine una scrittura, quella della
giovane Monica Acito, che sa inserirsi con originalità
in una grande tradizione letteraria e, mescolando
la forza tellurica del vernacolo alla freschezza di un
racconto sulla giovinezza, invoca la fame di felicità
che abita ciascuno di noi.